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Analisi degli Alimenti: Appunti 3

10/05/2012
Legumi

I legumi sono semi maturi delle piante della famiglia delle Fabacee, selezionate per l’alimentazione umana. L’uomo ha imparato ad addomesticare queste piante rendendole adatte alla produzione alimentare umana. Legumi di uso comune sono i ceci, fagioli (Phaseolus vulgaris), arachidi, soia (Glycine max), piselli e lenticchie. Altri meno diffusi sono il lupino, le cicerchie (parente molto stretto del pisello odoroso), fagioli di Lima, fagioli Adzuki (Vigna angularis – cosiddetta soia rossa), fagioli Mungo (Vigna radiata – cosiddetta soia verde) e fagiolo dell’occhio (Vigna unguiculata).
I legumi vengono prodotti praticamente in tutti i paesi del mondo – tuttavia varia il tipo di legume prodotto: in India vi è grande produzione di ceci e lenticchie, in questo paese ed altri in cui la disponibilità di derivati animali è minore, le donne ed i bambini basano il loro intake di proteine giornaliero sui legumi (la carne è spesso riservata agli uomini).

Il mercato dei legumi è classificato in:
-          Mercato del seme fresco: i semi sono raccolti immaturi e consumati come verdura – questi prodotti hanno un contenuto proteico minore perché immaturi. Vengono consumati in questo modo soprattutto fagioli e fave;
-          Mercato del seme secco: i semi vengono fatti seccare sulla pianta e raccolti – alto contenuto proteico (tutti tranne fava e pisello);
-          Industria sottovuoto;
-          Industria surgelato: si parte dal seme fresco;
-          Alimentazione zootecnica;
-          Industria mangimistica (i semi vengono macinati);
-          Sovescio: le piante vengono tagliate prima della maturazione, quindi macinate e mescolate al terreno al fine di renderlo più ricco, soprattutto in azoto – questo è anche il motivo per il quale quando si lascia “riposare” un campo nel ciclo di rotazione si piantano spesso dei legumi.

Le piante dei legumi instaurano relazioni di simbiosi con microrganismi N-fissatori, che determinano cessione alla pianta di N sotto forma di ioni ammonio – probabilmente è per questo motivo che i legumi hanno alto contenuto proteico.

PROTEINE:
In qualche caso rappresentano il 40% del contenuto del seme secco, tuttavia si può avere carenza di aa solforati (quindi non sono proprio equivalenti agli alimenti di origine animale – benché il quantitativo proteico complessivo eguagli i derivati animali e sia doppio rispetto a quello dei cereali). Interessante è il contenuto proteico del lupino, che può arrivare ad una percentuale del 43%.
Alcune proteine hanno funzione antinutrizionale – tuttavia queste proteine sono generalmente termolabili (quindi la cottura le rende inattive) – tuttavia la digeribilità delle proteine dei legumi è più bassa di quelle della carne anche dopo cottura.
Infine, le proteine dei legumi spesso sono carenti di aa essenziali.

Le albumine rappresentano un gruppo di proteine globulari eterogeneo , che comprende proteine con attività enzimatica e con attività strutturale – alcune sono inibitori delle proteasi e delle amilasi, quindi si comportano come fattori antinutrizionali (tale frazione delle albumine è ben rappresentata dalle lectine – che tuttavia agiscono come inibitori dell’assorbimento intestinale). Queste proteine a differenza di quanto detto prima, sono caretterizzate da alto contenuto di aa solforati, il che le rende particolarmente resistenti all’azione degli enzimi proteolitici.
La frazione globulinica è quella più abbondante – le globuline sono anche dette proteine di riserva, hanno infatti il compito di depositare N all’interno del seme – vengono mobilizzate durante la germinazione. Mediante ultrafiltrazione si separano alcune classi, le più rilevanti 11S e 7S – separate rispettivamente a 11000 e 7000 giri di ultracentrifugazione. Nella soia le globuline prendono il nome di glicinina, mentre nelle arachidi prendono il nome di arachine.

Le prolamine e le gluteline rappresentano una frazione molto bassa – addirittura le prolammine possono essere assenti, quindi i derivati delle prolammine sono ottimi per le persone ciliache.

Soia e lupino sono i legumi con contenuto proteico maggiore.

CARBOIDRATI:
La componente primaria nella soia è rappresentata da carboidrati, presenti sia come complessi (amido e fibra) che come zuccheri semplici. Quindi una dieta che prevede restrizione dei carboidrati consumati deve tenere di conto anche il consumo di legumi. Il carboidrato contenuto in maggiori quantità (anche per il 50%) è l’amido, con l’eccezione della soia e del lupino.
L’amido dei legumi è detto resistente, infatti a differenza di quello contenuto nel frumento è poco aggredibile da parte degli enzimi. Tale amido, quindi, in parte arriva all’intestino parzialmente non idrolizzato – i legumi, quindi, hanno comunque basso indice glicemico. Alcuni tipici di amido arrivano sino al colon dove favoriscono la crescita di microrganismi, determinando problemi di flatulenza. Di fatto questo amido si comporta come una fibra.

Basse concentrazioni di glucosio ed alte concentrazioni oligosaccaridiche possono determinare problemi di flatulenza (perché non essendo metabolizzati dall’organismo vengono processati dalla flora residente): far bollire i legumi o lavarli spesso determina eliminazione di questi composti.

Alfa-galattosidi (oligosaccaridi):
-          Raffinosio;
-          Stachinosio;
-          Verbascosio.
Sono derivati del saccarosio ove al glucosio sono legate 1,2 o 3 molecole di galattosio. Questi composti sono quelli principalmente responsabili della flatulenza. Sono stati eseguiti degli studi atti a valutare gli effetti della eliminazione di questi composti dai legumi.

I fagioli di Lima sono molto utilizzati in Messico, contengono un glicoside cianogenetico: la linamarina se va in contro ad idrolisi durante la masticazione determina la formazione di un composto che libera per degradazione acido cianidrico ed acetone. Cuocendo si elimina questo composto, inoltre sono state selezionate cultivar che determinano minor produzione di linamarina.

FIBRE:
Le fibre sono componenti della dieta essenziali per mantenere correttamente funzionante l’apparato gastroenterico, inoltre svolge un ruolo nella prevenzione di malattie degenerative e problemi diverticolari – determina minore assorbimento di glucosio, di colesterolo e di sostanze tossiche che rimangono intrappolate nella fibra stessa. Nei legumi il quantitativo di fibra è abbastanza variabile, comunque non si sale mai sopra il 25% (fagioli). Frazioni solubili (regolazione assorbimenti) ed insolubili (regolazione attività GI).
Nel tegumento delle leguminose sono presenti cellulosa ed emicellulosa, che nel bambino durante lo svezzamento possono determinare meteorismo e diarrea – il problema si risolve somministrando purè e passato di legumi.

LIPIDI:
Molto scarsi, con l’eccezione di soia, nel lupino, nei ceci ma soprattutto nell’arachide (che ha un quantitativo di lipidi del 50%). Infatti le arachidi sono utilizzate come frutta secca e non come contorno. Gli acidi grassi sono molto polinsaturi: oleico (è monoinsaturo), linoleico e linolenico. La frazione insaponificabile è rappresentata dagli steroli (tra cui il betasitosterolo), alcoli triterpenici e tocoferoli.
In generale i legumi hanno basso contenuto calorico – eccezion fatta per le arachidi.



ELEMENTI MINERALI:
Generalmente contengono tutti i sali minerali indispensabili nella dieta (tutti e 15 gli elementi essenziali), tuttavia il quantitativo dipende dal terreno in cui si ha la coltivazione. Buone quantità in soia, lupino e fava. I più presenti sono Ca, Fe, Zn e Cu – tuttavia il Ca è spesso poco disponibile, in quanto legato ai fitati. Per eliminare i fattori antinutrizionali che sequestrano tali metalli si può operare una cottura, ma anche fermentazione, germinazione e trattamento enzimatico.

VITAMINE:
Sia di  tipo idrosolubile che di tipo liposolubile. Apprezzabile il contenuto in B1, B2, C, A , E e niacina. Soia e lupino sono buone fonti vitaminiche. Una conservazione molto prolungata dei semi secchi determina diminuzione del contenuto vitaminico.

FATTORI ANTINUTRIZIONALI:
-          Di origine proteica: inibitori delle proteasi tripsina e chimotripsina, inibitori delle alfa-amilasi (utilizzati come integratori alimentari per la riduzione del peso corporeo). Le lectine agiscono a livello dell’epitelio intestinale riducendo l’assorbimento di nutrienti.
-          Di origine non proteica:
n  Tannini: interferiscono con l’assorbimento di proteine e minerali – in particolare legano proteasi nello stomaco;
n  Acido fitico ed ossalati: chelano metalli rendendoli meno biodisponibili;
n  Alfa-galattosidi: perché determinano flatulenza, in realtà questo concetto è messo in discussione dal fatto che inducono un miglioramento dell’ecosistema microbiologico intestinale;
n  Saponine: sono composti schiumogeni, hanno sapore amarognolo e sono presenti nella buccia e nel tegumento. Se presenti in grandi quantità possono anche dare reazioni che liberano prodotti tossici (in particolare con effetto emolitico). Possono anche legare la tripsina e la pepsina rendendo la digestione difficoltosa. Nei semi hanno funzioni insetticida. Tuttavia dato il basso contenuto non sono considerati pericolosi per l’uomo.

In una dieta in cui si ha alta disponibilità dei nutrienti qualche fattore antinutrizionale non è necessariamente negativo, inoltre alcuni di questi composti determinando mancato e diminuito assorbimento di alcune molecole possono svolgere attività protettiva nei confronti di patologie tumorali e cardiovascolari.

Come si tolgono questi composti?
-          Decorticazione: infatti molto spesso sono nel tegumento – tuttavia in questo modo si ha anche la perdita di fibre, alcune vitamine e sali minerali;
-          Ammollo: rimuove polifenoli, oligosaccaridi, acido fitico e proteine;
-          Trattamento termico: sia industriale che domestico – determina principalmente eliminazione di fattori antinutrizionali di origine proteica, ma attenzione alla reazione di Maillard;
-          Germinazione e fermentazione: si ottengono chiaramente alimenti diversi con maggiore digeribilità – metodo utilizzato principalmente ne paesi orientali, ove è particolarmente diffuso il consumo di germogli di soia (in questo caso non si usa Glicine max, ma specie del genere Vigna).

FAGIOLO:
Ci si riferisce spesso al fagiolo comune o Phaseolus vulgaris (es. barlotto), tuttavia come detto precedentemente sono presenti diversi generi di fagioli (vedi genere Vigna e fagiolo di Lima). Alcuni tipi di fagioli vengono conservati in baccelli, quando non si è ancora formato il seme. Dal punto di vista nutrizionale si segnala buon quantitativo proteico, buon quantitativo di carboidrati complessi (amido) e scarso contenuto lipidico. Buona fonte di K, Ca e Fe, di vitamina B1, B2 e niacina – tuttavia la B1 viene in gran parte persa con la cottura. Il fagiolo ha la caratteristica di essere digerito con fatica e di determinare senso di sazietà a lungo – il tutto migliora se lo priviamo della buccia o lo consumiamo come passato. L’assunzione del fagiolo è associato con la diminuzione dell’incidenza di tumori, patologie cardiovascolari e obesità. Come gli altri legumi contiene fattori antinutrizionali, tra cui glicosidi cianogenetici (anche da qui la necessità di una buona cottura – richiesta anche dallo spesso tegumento).

FAVA:
Un tempo molto consumata in Europa – tutt’oggi noi consumiamo solo la fava maggiore (una delle tre varietà). Anche nella fava abbiamo buon quantitativo proteico. Buon quantitativo di amido, presente la niacina e fattori antiossidanti. Come in tutti i legumi troviamo diversi fattori antinutrizionali ed in particolare va evidenziata la presenza di due glucosidi: vicina e convicina (molto stabile) che risultano essere pericolosi nei soggetti affetti da favismo, una malattia ereditaria diffusa nel bacino del Mediterraneo, caratterizzata dalla mancanza degli enzimi necessari alla degradazione di queste due molecole tossiche. Il consumo di fave da parte di soggetti affetti da favismo determina crisi emolitiche acute.

LENTICCHIE:
Le lenticchie sono un legume non abbondantemente prodotto in Italia. Esistono differenti varietà di lenticchia, caratterizzate dalla diversa dimensione del seme e dal diverso colore. Le lenticchie sono utilizzate quasi esclusivamente per l’alimentazione umana e non per quella animale, vista la loro alta digeribilità – possono essere consumate sia come semi verdi che dopo trattamenti di decorticazione e macinazione.
Nella lenticchia abbiamo un quantitativo elevato di proteine e di carboidrati, presente la niacina, K, Ca, Fe e K. Contengono basse concentrazioni di fattori antinutrizioanli, infatti come detto sono molto digeribili. Nell’animale possono determinare ipercolesterolemia a causa della presenza di saponine.

PISELLO:
La produzione di piselli nel mondo è elevatissima, infatti risulta essere il quarto legume prodotto nel mondo dopo soia, arachidi e fagioli. Sono presenti diverse varietà: lisci, rugosi, gialli e verdi. Possono esser consumati secchi, ma generalmente vengono consumati freschi. Lì troviamo anche congelati ed in scatola. I piselli secchi sono anche detti piselli proteici e sono utilizzati per la preparazione di zuppe e per l’alimentazione in allevamenti senza OGM.
I piselli secchi contengono una percentuale proteica maggiore rispetto ai piselli freschi – tra le proteine l’inibitore della tripsina è indice di qualità del pisello. Troviamo buona quantità di carboidrati complessi e di fibre

CECI:
Legume anch’esso estremamente prodotto a livello globale – in Italia la produzione è concentrata al Sud e nelle isole. Diverse varietà (distinguibili morfologicamente da forma, colore e superficie). Sono molto digeribili, questo ne permette un consumo anche da freschi. Anche nella cucina tradizionale italiana troviamo diverse ricette che richiedono farina di ceci – che si trova in vendita nei negozi. Contengono pochi lipidi, presenti vitamina B1, niacina, K e P. Dal punto di vista proteico abbiamo un quantitativo leggermente inferiore a lenticchie fagioli, mentre per quanto riguarda i carboidrati il quantitativo è analogo a quello di altri legumi (è molto alto)

ARACHIDE:
L’arachide è un legume di origine americana, tuttavia il 50% della produzione mondiale è di origine asiatica. Possono esser consumate come frutta secca, ma sono anche molto diffusi dell’rachide, come l’olio o il burro. Ottimo contenuto di arginina e di carboidrati – le arachidi, sono tuttavia, note per l’elevata presenza di lipidi ed in modo particolare di fosfolipidi insaturi (catene di oleico) come la fosfatidilcolina e la fosfatidiletanolammina. Non contengono colesterolo, ma fitosteroli quali il sitosterolo. Presente vitamina E, e molti minerali – tuttavia sono povere di sodio.

CICERCHIA:
Di rilievo è la produzione di cicerchia nell’Italia meridionale, tuttavia la derivazione è dall’Egitto. Alto contenuto proteico e di carboidrati, mentre abbiamo basso tenore lipidico. Presenti vitamine B1, B2, PP e minerali Ca e P. Presentano fattori antinutrizionali detti lantirogeni (derivati amminoacidici), che possono determinare latirismo, una malattia che si manifesta con due diverse forme cliniche: deformazione scheletrica o alterazione a livello del SN, che causa rigidità e paralisi muscolare. Le cultivar italiane sono state selezionate al fine di ridurre il contenuto di tali molecole – poi in Italia il consumo è molto scarso. In India il problema è invece rilevante perché la cicerchia è consumata quotidianamente – la pianta è infatti coltivabile senza particolari problemi.

LUPINO:
Veniva molto coltivato nell’epoca greco-romana; oggi sono coltivate le specie lupino bianco, lupino giallo e lupino blu. E’ un’ottima coltura da sovescio, e tutt’oggi il maggior impiego in Europa è nell’alimentazione animale differentemente da quanto accade in Asia. Viene consumata in tutta l’area mediterranea, tuttavia oggi il più grande produttore è l’Australia. Richiede terreno acido. Elevato tenore proteico, le frazioni più presenti sono albumine e globuline – buon contenuto di aa essenziali. Elevato contenuto proteico, con composizione in acidi grassi simile a quella della soia. Sono presenti maggiori quantità di acidi grassi insaturi (88%), tra cui troviamo l’oleico ed il linoleico (quest’ultimo in quantità simili alla soia) – tra gli acidi grassi saturi troviamo il palmitico. La componente lipidica insaponificabile è rappresentata da steroli, quali il beta-sitosterolo, alcoli triterpenici, tocoferoli e beta-caroteni. Presenti sia polisaccaridi, che oligosaccaridi (derivati del saccarosio) che zuccheri semplici, come il galattosio – l’amido è presente in piccole quantità. Pentosani, emicellulose e pectine rappresentano la fibra. I polisaccaridi più diffusi nel lupino solo i galattani, a cui è associata una bassa digeribilità – emicellulosa, lignina e cellulosa nel tegumento sono rimosse con la decorticazione, indispensabile prima di consumare questo legume. Buoni quantitativi di P, che tuttavia sono resi meno biodisponibili dall’acido fitico e di Mn.
Il consumo del lupino in alternativa alla soia è consigliato per il maggiore tenore proteico, il minore quantitativo di percentuale di fattori antinutrizionali e l’assenza di modificazioni OGM.

SOIA:
E’ il legume maggiormente prodotto a livello mondiale. La quantità proteica può arrivare sino al 40%, inoltre sono presenti aa essenziali in rapporti simili a quelli tipici delle proteine animali. I lipidi della soia (abbondanti, come in arachide e lupino) sono utilizzati per la produzione degli oli di soia – può essere idrogenato per la produzione di margarine.
Basso contenuto in amido, presenti vitamine B1, niacine a Sali minerali.
Dalla soia si possono ricavare diversi alimenti:
-          Farina di soia;
-          Latte di soia:
n  Disperdere la farina di soia in un quantitativo di acqua 10 volte maggiore;
n  Bollire per 20 min al fine di inattivare gli enzimi;
n  Filtrare;
n  Sterilizzare in UHT
E’ possibile addizionare alcuni componenti per mimare la composizione del latte.
-          Tofù:
trattare il latte di soia con calcio solfato a 65°C al fine di determinare la precipitazione delle proteina globuline, che vengono filtrate e lavate al fine di ottenere panetti solidi utilizzabili in svariati modi;
-          Miso:
pasta ottenuta per fermentazione congiunta di farina di soia e farina di riso. La fermentazione diminuisce l’impatto di fattori antinutrizionali.
-          Tempeh:
semi di soia sbucciati secchi – mantenere in acqua per 1 notte, quindi cuocere per 30 min per sterilizzarli e diminuire la concentrazione di fattori antinutrizionali. Mescolare con un Rizocus specifico in panetti. Dopo 36 ore di incubazione.
-          Salsa di soia:
delipidizzare la farina di soia, quindi aggiungere farina di frumento tostata. Sterilizzare il tutto in autoclave, quindi aggiungere due specie del genere Aspergillus, sale e lattobacilli. Fermentare per sei mesi, quindi pastorizzare, Si aggiunge acido benzoico come conservante. Durante questo periodo si ha idrolisi delle proteine, che liberano glutammato, che si organizza in glutammato di sodio. Il sapore del glutammato di sodio – che è il composto che dona sapore alla salsa di soia. ATTENZIONE! al mal di testa nella sindrome da ristorante cinese e giapponese, derivante da eccesso di glutammato di sodio.

Schema produzione proteine della soia:

Ripetendo l’operazione per ottenere il concentrato dai fiocchi sgrassati sul concentrato stesso si ottiene proteico. Il concentrato può essere utilizzato nell’estrusore per stirare le globuline al fine di ottenere qualcosa che somiglia ad una bistecca – utile per i vegetariani.

Le proteine della soia, che non contengono prolamine, sono utilizzate in alcuni alimenti liquidi per bambini ed adulti, come valida alternativa al latte (anche per allergici), ma anche in alimenti solidi e gelatinosi. Come alternativa alla carne ed in alimenti per celiaci cista l’assenza di prolamine.

Additivi

Gli additivi sono un argomento piuttosto discusso in tema alimentare – inoltre produrre alcuni alimenti senza additivi è estremamente complesso se non impossibile.
Gli additivi più criminalizzati sono quelli atti alla conservazione – possibili soluzioni sono: sterilizzazione e trattamento UHT, surgelazione (molto costoso), liofilizzazione, additivi chimici naturali ed artificiali.

Usando gli additivi si può impedire alterazione dell’alimento che possono portare anche alla formazione di sostanze nocive – per questo motivo è concesso l’utilizzo di additivi con finalità conservanti. Va sottolineato che l’utilizzo di additivi può diminuire i costi di produzione. Gli additivi alimentari sono circa 5000.

Gli additivi sono sostanze che:
-          Devono essere necessarie;
-          Devono fornire il massimo della sicurezza – non tanto di tossicità acuta (non è nemmeno contemplato che un additivo alimentare possa determinare tossicità di tipo acuto) quanto più di tossicità cronica;
-          Non si consumano tal quali – quindi il sale non può essere considerato un additivo, benché spesso utilizzato con finalità conservative;
-          Viene aggiunto all’alimento, quindi non deve essere già presente (se presente si può aumentare la concentrazione, ma sempre per aggiunta);
-          Può avere (molto raramente) valore nutrizionale;
-          Può rimanere nell’alimento parzialmente o completamente;
-          Deve poter essere individuato dal punto di vista analitico – non sono concessi additivi la cui identificazione sul piano analitico non sia chiara;
-          La sua presenza deve essere dichiarata in etichetta.

Molti consumatori associano al termine additivo una connotazione negativa, tuttavia:
la produzione di alimenti completamente privi di additivi è pressoché impossibile, infatti l’alimento avrebbe un tempo di conservazione molto breve, inoltre potrebbe diventare pericoloso.
Esistono tre possibili immaginari:
1.      Produrre alimenti completamente privi di attivi: vedi i rischi riportati sopra;
2.      Produrre alimenti che contengono pochi additivi ma sicuri, o meglio consentire l’impiego di una ristretta rosa di molecole: questo porterebbe a somministrare alla popolazione un grande quantitativo di un determinato additivo per tutta la vita – ciò può essere estremamente pericoloso, anche perché è necessario tenere di conto che per quanto sicuro nessun additivo può esserlo al 100% soprattutto se assunto in grande quantità;
3.      Produrre alimenti con un’ampia varietà di additivi, estremamente controllati e monitorati.
La situazione 3 è quella più favorevole dal punto di vista tossicologico ed infatti è quella che attualmente è applicata. Affinché una sostanza divenga additivo alimentare concesso deve essere vagliato da enti specializzati, che si occupano anche di studiare la dose giornaliera ammissibile (DGA). Si utilizzano linee cellulari umane ed esperimenti su animali, determinando NOEL (no ebserved effect level) – ovvero la dose che a lungo termine non produce, nell’animale, effetti visibili. La dose viene espressa in mg/Kg di peso corporeo – quindi si divide per un fattore di sicurezza (fattore di cautela) che va da 10 a 100 per determinare DGA sull’uomo perché: potrebbe non esserci collegamenti tra uomo ed animale, inoltre l’uomo vive più a lungo (quindi è sottoposto per più tempo all’azione dell’additivo).
Si supponga che per un ratto il  NOEL è di 500mg/Kg di peso dell’animale: si divide per un fattore di cautela pari a 100 e si ottiene una DGA di 5mg/Kg di peso corporeo dell’uomo. Per un uomo che pesa 60Kg e consuma 0.3Kg dell’alimento in cui è presente l’additivo in un giorno si ricava la dose massima di quell’additivo che sarà possibile aggiungere all’alimento: (5x60)/0.3 = 1000mg/Kg di alimento. Il dato ottenuto rappresenta il livello teorico di tossicità – si noti che se la “richiesta tecnologica” è minore per la produzione di quell’alimento allora il valore richiesto sarà utilizzato come limite massimo.

11/05/2012

Esistono diversi organi nei diversi stati che hanno il compito di legiferare in materia di additivi alimentari, generalmente la legislazione italiana recepisce direttive dell’UE per tale materia.
A causa di problemi dovuti alle diverse nomenclature dei composti chimici è stata introdotta la nomenclatura a livello europeo degli additivi: “E” seguito da un numero – oggi si va verso la nomenclatura globale, introdotta dal Codex Alimentarius, che prevede solo il codice numerico.

La legislazione riguardante gli additivi alimentari è una legislazione “positiva”, perché sarebbe difficile stilare un elenco esaustivo di ciò che si può e di ciò che non si può fare o aggiungere ad un alimento, anche perché nuove contraffazioni sono sempre all’ordine del giorno – viene, quindi, fornito un elenco dei processi che possono essere effettuati, ovvero un elenco degli alimenti che possono contenere un determinato additivo. Chiaramente la normativa prevede anche un elenco degli additivi concessi e le dosi massime utilizzabili riferite allo specifico alimento.
In questo modo si garantisce il consumatore e si stimola il produttore ad utilizzare i composti autorizzati, solo quando è necessario.

Esistono 25 categorie, le più comuni sono presentate qui di seguito.

CONSERVANTI:
Sono sostanze biologicamente attive al fine di permettere la conservazione dell’alimento. La loro funzione è quella di bloccare  l’attività indesiderata dei microrganismi – chiaramente non deve essere presente alcuna attività tossica. Sono tutti batteriostatici o  fungistatici, non sono mai antibiotici (ad eccezione di uno:).
La categoria dei conservanti contiene sia composti innocui, che composti accettati in relazione al rapporto rischio/pericolo.
L’acido benzoico si utilizza solo per casi specifici e viene normalmente utilizzato in associazione con altri composti. L’acido benzoico agisce a livello della parete cellulare ed a livello di alcuni enzimi del ciclo di Krebs. Può derivare dal metabolismo batterico dell’acido ippurico.

L’acido sorbico è il conservante più utilizzato – è  naturale, ma quello utilizzato può essere di semisintesi. Non viene quasi mai utilizzato come acido, ma viene utilizzato come sale, al fine di renderlo più solubile. Ha buona attività nei confronti di Clostridium. Ha un metabolismo simile a quello dei grassi (piuttosto rapido). Nelle conserve si è osservato che inibisce la crescita dei batteri non lattici, quindi favorisce di fatto la fermentazione lattica. La carne è un substrato di crescita ottimale per i microrganismi, quindi è necessario aggiungere conservanti – spesso si usa a tale scopo proprio un sorbato. I sorbati sono considerati innocui.  I sorbati sono gli unici conservanti ammessi negli alimenti dietetici.

Para-idrossibenzoati di etile e di propile sono batteriostatici piuttosto forti, tuttavia non vengono mai utilizzati soli, infatti vengono sempre utilizzati con sorbati ed acido benzoico. Sono buoni dal punto di vista igienico, ma non sono utilizzatissimi a causa della loro tossicità. Sono presenti anche in integratori alimentari.

I solfiti (forma utilizzabile dell’anidride solforosa) sono utilizzati in enologia: nel mosto sono presenti microrganismi che possono determinare la produzione di acido acetico piuttosto che etanolo – si provvede all’aggiunta di solfiti di sodio che inibiscono la crescita di queste muffe, definite selvagge. I solfiti sono particolarmente presenti nei vini bianchi, ove stabilizzano il Fe(II) dall’ossidazione a Fe(III) che può precipitare determinando viraggio del prodotto a color ruggine. Solfiti reagiscono con aldeidi e chetoni dando i composti di Bertagnini, inoltre reagiscono con gruppi amminici e ponti di solfuro delle proteine, per questo motivo è opportuno utilizzarne quanti meno possibili. I solfiti distruggono la vitamina B1, quindi si evita il loro utilizzo negli alimenti che sono considerati sua fonte di approvvigionamento. Quantità rilevanti di solfiti più che nel vino si trovano nella frutta secca (che in realtà è piuttosto umida). L’anidride solforosa (inserita come solfiti) permette di mantenere la colorazione della frutta fresca.

Nitrati e nitriti sono utilizzati come conservanti, in modo particolare per insaccati e conserve di carne. Tutt’oggi è possibile conservare la carne in modo molto efficiente utilizzando il freddo, quindi sarebbe possibile evitare la produzione di insaccati e conserve di carne. Nel prosciutto si usa molto sale per permetterne la disidratazione – in questo modo la carne diventa poco adatta alla crescita di microrganismi, quali ad esempio C. botulinum. Inoltre, questi composti permettono di mantenere il colore rosso vivo della carne. Nitrati e nitriti sono composti inorganici che si trovano normalmente nel terreno e sono normalmente presenti nei vegetali (nitrati) – I nitrati essenzialmente fungono da riserva di nitriti, che rappresentano i veri prodotti attivi. In ambiente acido (stomaco) i nitriti possono reagire con le ammine dando luogo alle nitrosammine che sono tossici – tuttavia il rischio del consumo di carne salata ma non trattata con i nitriti è pericoloso. Per ridurre la quantità di nitriti spesso si usano in associazione con gli ascorbati.

C’è un campo particolare in cui è possibile utilizzare conservanti-antibiotici: la maturazione dei formaggi richiede la presenza di particolari microrganismi. Questi microrganismi producono antibiotici che determinano inibizione della crescita di microrganismi che sono loro competitori e che per noi sono patogeni. Quindi si è deciso di dare il permesso di aggiungere antibiotici , che quindi sono normalmente contenuti. La popolazione è normalmente esposta a questi antibiotici senza mostrare particolari problematiche, quindi si è ritenuto che un loro impiego in campo alimentare non costituisce una problematica per la salute.

Gli agenti di superficie sono ad es. dei fungicidi che vengono distribuiti solo sulla superfice di alimenti che presentano bucce e scorze di alimenti per i quali queste porzioni non vengono utilizzate – molti sono derivati fenilici.

ANTIOSSIDANTI:
Negli alimenti i processi di ossidazione sono piuttosto comuni, e sono causati dall’ossigeno atmosferico e catalizzati dalla luce, dal calore e dalle tracce di metalli. Alcuni additivi antiossidanti sono definiti:
-          Primari: si ossidano al posto della molecola da proteggere;
-          Sinergici: rigenerano i primari – riducono cedendo atomi di H;
-          Composti sequestranti: sequestrano i metalli che determinano ossidazione.

Un comune antiossidante è l’acido ascorbico, utilizzato anche come palmitato di ascorbile (composto di semisintesi) che permette di utilizzare l’acido ascorbico anche in alimenti completamente lipidici.

I tocoferoli sono stabili a T ambienti ed in assenza di ossigeno, tuttavia non sono stabili a seguito di trattamenti termici. Impiegato in grassi emulsionati ed in oli con l’eccezione degli oli di oliva.

L’acido citrico è un sequestrante del ferro – trova impiego in diverse situazioni: bibite, vini, formaggi, conserve vegetali e prodotti dolciari.

La lecitina di soia viene utilizzata spesso, anche nel caso di prodotti dietetici  - di questo composto spesso si indica “qb” come quantità – infatti è totalmente innocua. Viene principalmente utilizzata nel latte in polvere, nel latte concentrato e nell’industria dolciaria.

Gli antiossidanti visti fino ad ora sono tutte molecola naturali o di semisintesi, tuttavia è diffuso anche l’utilizzo di molecole di origine sintetica: per alimenti processati termicamente è opportuno utilizzare molecole sintetiche che resistano a tali trattamenti. Es. di questi composti sono i derivati dell’acido gallico. Altri antiossidanti particolarmente efficienti sono il tert-butilidrossianisolo e tert-butilidrossitoluene, che sono utilizzati anche in campo farmaceutico – il radicale, che si forma durante la loro azione è stabilizzato dal tert-butile. Sono derivati fenolici.

GELIFICANTI ed ADDENSANTI:
Hanno funzione tecnologica. Sono prevalentemente dei polisaccaridi, come gli alginati e pectine che vengono estratte dalla buccia delle mele – non rappresentano problemi dal punto di vista tossicologico (quindi qb). Sono utilizzati per conferire all’alimento una certa caratteristica di consistenza. I polifosfati hanno discorso a parte, infatti non presentano tossicità propria, tuttavia sono complessanti del calcio. Questi composti prevengono la formazione di granuli per separazione dei cristalli di ghiaccio, inoltre prevengono la separazione della fase lipidica da quella acquosa.

EMULSIONANTI:
Stabilizzano salse, creme e gelati – ovvero servono per stabilizzare le emulsioni di acqua ed olio. Sono prodotti naturali, come la lecitina o monogliceridi degli acidi grassi (anche per sintesi). La loro azione è permessa dalla loro struttura anfipatica. Esteri del saccarosio (maionese, margarina e gelati), monogliceridi (glicerilpalmiato, oleato e stearato) e lecitina (cioccolato e prodotti dolciari – come già visto, ha anche funzioni antiossidanti)

COLORANTI:
La colorazione alimentare né una pratica da molto tempo praticata ma non indispensabile, infatti i coloranti sono molecole non fondamentali per la preparazione all’alimento – tuttavia permettono la conservazione del colore  allo stato fresco. L’utilizzo di coloranti è stato concesso al fine di venire in contro alle esigenze del consumatore più che ad esigenze di tipo tecnologico.
Dalla normativa sui coloranti sono stati eliminate alcune molecole di natura azoica, che sono noti cancerogeni o sospetti tali.
Esistono due categorie di coloranti:
-          Naturali: estratti da frutta e verdura – sono, tuttavia, prodotti relativamente instabili: clorofille, carotenoidi, antociani, e xantofille;
-          Sintetici: sono molto più stabili e derivano dall’industria tintoria. Sono stati utilizzati alla fine del XIX secolo – tuttavia ci si è accorti che alcuni sono cancerogeni (sicuri).
Oggi sono possibili 9 coloranti naturali organici, 9 coloranti sintetici ed alcuni coloranti naturali ma inorganici.
La cocciniglia si estrae dagli insetti – utilizzati sino dal rinascimento.

Non si possono colorare pochi alimenti: latte, zucchero, sale, acqua, pane, pasta e carne.

I coloranti che sono in discussione sono essenzialmente quelli sintetici – si noti che tra vietati e consentiti c’è poca differenza a livello di struttura – sono tutte strutture essenzialmente polifenoliche.

I cibi coloranti mediante coloranti naturali devono essere adeguatamente conservati: il contenitore non deve contenere tracce di metalli e deve proteggere il contenuto da temperatura e dalla luce – questo a causa del fatto che i coloranti naturali sono meno stabili di quelli artificiali.

Clorofille e clorofilline: quelle naturali sono estratte dalle piante e sono costituite da quattro anelli pirrolici che legano un atomo di magnesio – queste molecole sono altamente instabili alla luce. Le clorofille naturali vedono la sostituzione dell’atomo di magnesio con uno di rame nel nucleo porfirinico. Le clorofille sono liposolubili, per questo motivo sono utilizzate per la colorazione di pasta e prodotti dolciari.

I carotenoidi sono molecole estremamente diffuse nel regno vegetale e dal punto di vista chimico derivano dalla condensazione di otto unità isopreniche. Sono strutture liposolubili presentanti che presentano un grande numero di doppi legami coniugati. I carotenoidi si distinguono in caroteni e xantofille: i principali caroteni sono l’alfa, il beta, il gamma ed il licopene – sono contenuti nella frutta colorata di rosso ed arancione; le xantofille sono carotenoidi con gruppi ossigenati e non presentano problemi di tossicità.

Gli antociani vengono estratti da diverse strutture naturali con colorazioni rosso-violetto-blu. La colorazione dipende dal pH. L’antociano più diffuso è l’enocianina, ricavata dalla buccia dell’uva ed utilizzata per colorare i vini troppo pallidi. Il cromoforo è detto aglicone.

EDULCORANTI:
Gli edulcoranti si trovano in diversi tipi di alimenti – devono, tuttavia, avere buon sapore dolce, infatti sono contenuti in alimenti conferendo basso o nullo potere calorico e altrettanto bassa risposta glicemica.
Un tempo gli edulcoranti venivano regolamentati nella normativa degli alimenti speciali, tutt’oggi invece rientrano nella normativa degli additivi alimentari. Sono utilizzati negli alimenti per diabetici, in quelli ipocalorici, negli alimenti non cariogeni e nella formulazione di farmaci.
In natura esistono diverse sostanze con potere dolcificante ma solo poche sono contemplate nella normativa vigente.

L’edulcorante oltre a non essere tossico deve possedere un sapore dolce ma nel contempo non deve avere alcun retrogusto e deve essere inodore. L’edulcorante deve essere stabile nel corso del processo produttivo  ma anche successivamente, inoltre non deve reagire con i componenti dell’alimento.

Due tipologie:
-          Edulcoranti bulk o di massa: sono derivati degli zuccheri ridotti ad aldeidi ed alcoli. Questi composti sono normalmente presenti in frutti e bacche, tuttavia quelli utilizzati commercialmente sono ottenuti per riduzione da zuccheri e non per estrazione – i più comuni sono: sorbitolo, mannitolo, maltitolo, lattitolo e xilitolo. Hanno potere dolcificante simile ma superiore al saccarosio (con alcune eccezioni, quali il sorbitolo), quindi vengono addizionati in quantità analoghe ad esso (andando, quindi, anche a sostituirne la massa). Questi polialcoli vengono assorbiti incompletamente a livello intestinale, quini un eccessivo intake può indurre la comparsa di fenomeni diarroici.
n  Il sorbitolo è il polialcol più diffuso in natura, con concentrazioni abbastanza elevate in alcuni tipi di frutta. Dal punto di vista industriale è ottenuto per idrogenazione catalitica del D-glucosio. Viene utilizzato con altri alditoli al fine di edulcorare confetteria e gomme da masticare – va sottolineato che può determinare un allungamento della scadenza del prodotto anche del 3-5%;
n  Il mannitolo è un altro polialcol molto diffuso in natura, in modo particolare in alghe marine, nei funghi e nelle cipolle. Anch’esso ottenuto a livello industriale per riduzione catalitica – utilizzato come edulcorante ipocalorico in combinazione a sorbitolo e xilitolo;
n  Lo xilitolo è presente in frutta e verdura ed è utilizzato nell’industria dolciaria, in quella confetturiera e nella produzione di gomme da masticare.
-          Edulcoranti intensivi: presentano un potere dolcificante spesso centinaia di volte maggiore rispetto a quello del saccarosio, per questo motivo è difficile utilizzarli in prodotti da forno, anche perché il loro utilizzo determina sottrazione di parte della massa dell’impasto, dovuta alla presenza di saccarosio. Gli edulcoranti intensivi sono utilizzati molto nelle bevande, nella formulazione di farmaci e nelle gomme da masticare – sono spesso associati ad edulcoranti di massa che sostituiscono la massa del saccarosio.
n  La saccarina è l’edulcorante di sintesi più abbondantemente diffuso ed utilizzato, per anni è stato l’unico sostituto del saccarosio – tutt’oggi il suo impiego è in diminuzione a causa di una possibile relazione tra il suo impiego e l’insorgenza di tumore alla vescica. Molti studi hanno, comunque, dimostrato che l’uso in quantitativi normali di questa sostanza non ha effetto tossico. La saccarina ha un retrogusto metallico. E’ utilizzata in microconfetteria e nella preparazione di bibite ipocaloriche;
n  L’aspartame è un dipeptide costituito da fenilalanina ed acido aspartico. La sensazione di dolce derivante dall’aspartame tende a perdurare nel tempo – non ha retrogusto. Alle alte temperature determina la formazione di un prodotto di degradazione non dolce. Utilizzato in svariati campi dell’industria alimentare – gli alimenti che lo contengono devono riportare in etichetta la dicitura “contiene fonti di fenilalanina” in difesa dei soggetti affetti da fenilchetonuria.
n  L’acesulfame-K è prodotto appunto come sale di potassio ed ha struttura simile alla saccarina di cui condivide proprietà chimico-fisiche. Risulta essere stabile nel tempo anche ad altre temperature. Quando utilizzato in alte concentrazioni ha retrogusto amaro. Non è metabolizzato dall’organismo, quindi viene estruso molto rapidamente attraverso le urine;
n  I ciclammati derivano dall’acido ciclammico ed hanno un modesto potere edulcorante. Sono stabili a pH acidi (ma non eccessivamente acidi) e a T non troppo alte. Nuovi studi tossicologici dell’UE hanno condotto alla proposta di bandire l’utilizzo di questi composti da alcuni alimenti e di ridurne la dose consentita in altri.

Contaminanti

I contaminanti non vanno mai confusi con gli additivi alimentari – infatti questi ultimi vengono aggiunti appositamente. I contaminanti dell’acqua meritano molta attenzione, perché questa viene consumata in modo molto massiccio. E’, inoltre, necessario distinguere i contaminanti acuti da quelli cronici.
Si osservi che la catena alimentare determina la concentrazione dei contaminanti a livello di alcuni alimenti – vedi esempio dei pesci grossi.

Quali sono i principali contaminanti?
-          Metalli tossici: arsenico, cadmio, cromo, piombo e mercurio;
-          Detersivi (o tensioattivi);
-          Policlorobifenili (PCB);
-          Idrocarburi policiclici aromatici (IPA);
-          Diossine;
-          Micotossine;
-          Fitotossine;
-          Prodotti derivanti dai trattamenti termici, es. acrilammide;
-          Agrofarmaci.

Si definiscono dosi tollerabili al giorno, mentre alle volte si definiscono dosi settimanali – tenendo di conto l’assunzione giornaliera di un alimento. Si fissano, quindi, i livelli massimi dei residui che sono ammissibili nei diversi alimenti – vengono utilizzati diversi parametri, come NOEL.

Quattro categorie di contaminanti:
-          Di origine industriali:
n  Inorganici
n  organici
-          Di origine agricola – agroafarmaci;
-          Contaminazione microbiologica;

METALLI PESANTI:
Nell’ambiente, per vari motivi, sono presenti alcuni metalli pesanti che si trovano prevalentemente nel terreno ma anche nel particolato. Se si coltiva frutta e verdura queste le assorbiranno diffondendoli in tutta la catena alimentari.
I metalli pesanti vengono rilevati con particolare tecniche della chimica analitica.
L’arsenico è inodore ed insapore – è abbastanza ubiquitario, ci sono terreni che ne hanno quantità rilevanti, come nel caso di terreni segnati da attività vulcanica. La diffusione di arsenico negli alimenti è, comunque, molto rara.
Il cadmio è un metallo relativamente raro nella crosta terrestre – oggi il problema del Cd sta diventando importante a causa delle pile al Ni/Cd. Il Cd è presente anche nel fumo delle sigarette. Tè e caffe, tuberi e patate presentano Cd in quantità elevata .
N.B. Cozze, ostriche ed altre conchiglie sono particolarmente ricche di contaminanti in generale – infatti sono anche utilizzati come organismi sentinella (in particolare le cozze).
Il cromo è un po’ meno tossico rispetto ai primi due visti – è molto diffuso nell’ambiente come Cr(III) e Cr(VI) – quest’ultimo è molto pericoloso perché è un forte ossidante. Il Cr nei metalli già cromati è Cr(0) e quindi non è tossico. Attenzione alle contaminazione delle acqua vicino agli impianti di cromatura.
Il mercurio è l’unico metallo che si trova liquido a T ambiente, esso si lega al C determinando la formazione di composti organici – in queste forme Hg è molto biocompatibile e tende a diffondere ed entrare nell’organismo ove si accumula nei grassi. In Italia un tempo vi erano parecchie miniere atte all’estrazione del mercurio – il dilavo delle rocce con la pioggia concentra Hg nel mare. La catena alimentare sulla terra è corta, perché noi consumiamo solo animali erbivori (al max onnivori) – mentre nel mare il discorso è diverso: il pesce grande mangia il pesce piccolo – quindi i pesci più grosso possono accumulare molto Hg, per questo motivo i controlli su tonno, pesce spada e squalo sono obbligatori. Il Hg ha una certa neurotossicità.
Il piombo è meno tossico, tuttavia è molto diffuso  nell’ambiente – solo una decina di anni fa il Pb è stato proibito nelle benzine. Un tempo con il Pb si facevano i tubi di scarico dell’acqua. La tossicità del piombo non è particolarmente alta.

L’agenzia per le Sostanze tossiche degli USA ha stilato nel 1999 un elenco di 275 sostanze organiche ed inorganiche tossiche per l’uomo e per l’ambiente – nelle prime venti troviamo questi 5 metalli pesanti. Secondo l’OMS una fetta rilevante di patologie sia croniche che acute è attribuibile ai metalli pesanti – il cui accumulo sulla terra è per buona parte imputabile all’azione dell’uomo.

I metalli presenti negli alimenti vengono determinati mediante spettrofotometria di assorbimento atomico o di emissione atomica.

COMPONENTI ORGANICI:
I policlorobifenili erano utilizzati come stabilizzanti delle vernici per esterno, e nei vecchi trasformatori perché hanno bassa conduttività elettrica come oli. Circa 10 anni fa in Belgio ed Olanda è accaduta una contaminazione di mangimi per bestiame che a richiesto l’abbattimento di un numero rilevante di capi. Sono ottenuti per clorurazione a vari livelli del difenile: la loro tossicità dipende dal numero di clorurazioni e dalle posizioni dei Cl sella struttura di base – la biodegradabilità di questi composti è inversamente proporzionale al grado di clorurazione. Si stanno cercando microrganismi in grado di degradare i PCB, nell’ambito della “bioremediation”.

Benzopirene è un idrocarburo policiclico aromatico (IPA) si ottiene per combustione di acidi organici – si formano principalmente negli inceneritori, ma si formano anche in trattamenti a caldo di alimenti. La cancerogenicità è dimostrata – sono molto liposolubili. Gli IPA sono formati dalla condensazioni di anelli benzilici. Possono essere introdotti nell’organismo inalando aria contaminata, ma anche consumando contaminati o cotti alla griglia o fritti – se ne trovano moltissimi nel fumo.

Con il termine diossine ci si riferisce in generale a composti chiamati policloro-dibenzo-diossine e policloro-dibenzo-furani – composti a struttura quasi planare. Questi composti sono ad alta attività biologica e ad elevata tossicità acuta. Nel 1976 un grosso incidente a Seveso in un industria ha portato alla liberazione di un grande quantitativo di diossine, in particolare è stata prodotta una diossina tetraclorurata (quella più tossica), che ha contaminato strutture e terreni. Le diossine non sono tutte tossiche nello stesso modo, dipende come i PCB dal grado di clorurazione e da una serie di altri innumerevoli fattori. Anche i processi di combustione che avvengono nei motori delle automobili sono fonti di diossine. Purtroppo i tempi di emivita sono piuttosto alti. In Italia i livelli di diossine consentiti al giorno sono più alti rispetto ad altri paesi europei, quali la Germania.

MICOTOSSINE:
Sono tossine prodotte da funghi o muffe presenti in molte derrate alimentari – queste sostanze possono essere presenti anche se la muffa è già stata uccisa, oppure non è visibile. Le micotossine sono prodotti del metabolismo secondario. Alimenti molto comuni possono contenere questi contaminanti: cereali, semi oleaginosi, legumi, frutta secca, formaggi ed insaccati
L’attacco del fungo può avvenire prima o dopo la raccolta –il momento della conservazione risulta essere molto delicato. Le micotossine sono state rilevate per la prima volta in intossicazioni animali: quando ci sono degli alimenti clamorosamente deteriorati vi è spesso la tendenza ad utilizzarli per fare i mangimi (anni ’70 negli Stati Uniti – talmente elevata la concentrazione che vi è stata risposta acuta, oggi il problema è cronico di tipo tumorale).
Attualmente sono note più di 300 differenti micotossine, prodotte da differenti generi: Aspergillus, Penicillium, Rhizopus… Aspergillus flavus produce le aflatossine – altre tossine comunemente diffuse sono le ocratossine, i tricoteceni, le fumonisine e la patulina. La patulina a differenza delle altre tossine si forma nella frutta e non nei semi. Sono termolabili ma non c’è da fidarsi – anche perché hanno la caratteristica di essere abbastanza resistenti a trattamenti chimici, fisici e biologici.
Tra le più comuni ci sono le aflatossine, che sono diffuse in tutti gli alimenti comuni (estremamente diffuse nelle arachidi). Tra le aflatossine meritano di essere menzionate per diffusione le B1, B2, G1 e G2 – la denominazione alfabetica deriva dal colore con il quale tali sostanze vengono rilevate in fluorescenza. AFB1 è particolarmente tossica per l’uomo ed ha come organo bersaglio il fegato.
Possiamo trovare micotossine nel latte per via di contaminazione dei cereali – in realtà si trovano aflatossine modificate dal metabolismo animale (M, che sta per milk).
Le ocratossine sono prodotte anch’esse da Aspergillus ma anche da Penicillium. Sono presenti nel caffè, nei cereali, nel cacao, nella birra e nei legumi. Sono nefrotossiche. La tostatura o la disidratazione del seme possono disattivare queste molecole.



AGROFARMACI
L’agricoltura è un’alterazione degli ecosistemi naturali volta a trasformali in agro-sistemai al fine di determinare una sempre maggiore produttività di vegetali utilizzati per l’alimentazione umana e del bestiame. Le tecniche agricole devono rispondere e risolvere problemi legati alla presenza di fattori abiotici (clima, carenze idriche, radiazioni solari, qualità del suolo) e fattori biotici (microrganismi parassiti ma anche di animali fitofagi) che ostacolano le coltivazioni agricole. L’utilizzo di fertilizzanti, di nuove tecniche agricole, di nuove tecniche biotecnologiche ha permesso di fronteggiare i fattori abiotici, mentre l’utilizzo di agrofarmaci permette di opporsi ai fattori biotici.

Gli agrofarmaci sono sostanze atte alla protezione ed alla conservazione dei vegetali dai parassiti, inoltre permettono di eliminare le piante indesiderate. Esistono differenti classi di agrofarmaci: erbicidi, fungicidi, insetticidi, rodenticidi…
Negli ultimi anni si è assistito alla diminuzione del 25% dell’impiego di agrofarmaci, determinata da migliori tecniche agricole, dall’utilizzo di strategie difensive alternative e dall’introduzione in commercio di molecole impiegabili ed attive a basse dosi.
A tal proposito merita attenzione il discorso riguardante la lotta integrata che combina in sinergia mezzi biologici, mezzi chimici ma di derivazione naturale, mezzi chimici ad alta resa e selettivi e mezzi tecnologici (compresa l’ingegneria genetica).

L’agricoltura biologia (o agricoltura organica) è quell’insieme di metodi di coltivazione, allevamento e gestione di aziende agricole che oltre a non contemplare l’utilizzo di prodotti chimici di sintesi cerca anche di ridurre al minimo possibile i consumi energetici a di riarmonizzare le tecniche produttive con la natura, determinando la formazione di agro-sistemi equilibrati. L’agricoltura biologia in Italia oggi rappresenta circa l’8% dell’agricoltura totale. L’agricoltura biologica, quindi non prevede l’utilizzo di concimi di sintesi, prevede l’applicazione della tecnica della rotazione e la lotta dei parassiti e delle malerbe senza l’impego di molecole di sintesi.

La registrazione e la commercializzazione di un nuovo agrofarmaco richiedono un iter molto complesso, ma indispensabile al fine di testare in modo efficiente la sicurezza della nuova molecola.
Molto importante è la quantizzazione dei residui di un agrofarmaco, ovvero quelle sostanze derivanti da degradazione o da metabolismo di un agrofarmaco (ma anche esso stesso) presenti all’interno o su un prodotto vegetale o animale destinati al consumo alimentare, ma anche presenti nell’ambiente come conseguenza dell’utilizzo dell’agrofarmaco stesso. Per ogni residuo deve essere stabilita una tecnica analitica per la sua quantizzazione ma deve essere anche nota la struttura e la via metabolica mediante la quale si forma. L’analisi dei residui può essere molto complicata per via delle piccole quantità in cui questi si trovano – i metodi analitici comunemente utilizzati sono: GC (per composti volatili e termolabili); HPLC; metodi immunoenzimatici. I primi due metodi sono definiti multiresiduo, mentre il terzo è definito monoresiduo. Le tecniche monoresiduo sono adatte alla ricerca e quantizzazione di singole sostanze, in questo caso è alta l’affidabilità ed i limiti di quantizzazione sono molto bassi, come è anche basso il rischio di interferenze nell’analisi. Le tecniche multiresiduo sono adatte per la ricerca in contemporanea di diverse sostanze, anche di natura incognita. Queste tecniche vengono normalmente utilizzate nel monitoraggio ordinario e a differenza delle tecniche monoresiduo presentano limiti di quantizzazione leggermente più alti e anche le interferenze sono più probabili.

In Italia sono registrati ad oggi circa 450 fitofarmaci i cui principi attivi possono essere distinti e quantizzati contemporaneamente con 3 analisi.

Esistono due categorie di agrofarmaci:
-          Prodotti da copertura: vengono posti all’esterno del vegetale e devono essere somministrati con una certa frequenza anche perché il dilavo della pioggia e la degradazione della luce solare tendono ad allontanarli. Queste moelcole sono generalmente molto tossiche ma sono facilmente eliminabili dal consumatore;
-          Prodotti sistemici: penetrano nella pianta e per questo motivo devono essere molto selettivi per l’organismo target (anche perché non possono essere eliminati con il lavaggio). Sembra che inducano una migliore risposta immunologica da parte della pianta e, generalmente, hanno una bassa tossicità nei confronti dei mammiferi. Dal punto di vista temporale sono quelli più moderni.

Il destino ambientale di un fitofarmaco (o agrofarmaco) dipende da una serie di caratteristiche sia della molecola che dell’ambiente nella quale viene impiegata, ma anche dalla tecnica con la quale viene somministrata – va tenuto presente che l’erbicida a contatto con il terreno può andare incontro a diversi processi:
-          Immobilizzazione: la molecola viene adsorbita e rimane legata mediante l’instaurazione di differenti tipi di legami: legami ad H, forze di W.d.W e chelazione;
-          Traslocazione:
n  Volatilizzazione: dispersione nell’atmosfera;
n  Dilavamento: causato dall’acqua e dipendente chiaramente dalla solubilità e dalla T;
n  Allo stato già adsorbito per erosione del terreno.
n  La traslocazione di un fitofarmaco può avvenire anche per assorbimento da parte di una pianta.
-          Degradazione: per via chimica, fotochimica e microbica. Le principali reazioni degradative sono l’idrolisi, l’ossidazione, la riduzione e la dealogenazione.





































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